Walter Fontan

Settantacinque anni fa moriva Walter Fontan. Era stato uno dei comandanti delle prime bande partigiane in Valsusa, in seguito il suo nome venne dato alla 42° brigata Garibaldi, e sono intitolate a lui oggi la sezione ANPI di Bussoleno/Foresto/Chianocco, la via principale del centro storico di Bussoleno e una scuola a Murmansk, nel nord della Russia. Nonostante questo la documentazione su di lui è estremamente scarsa, anche nell’archivio dell’Istoreto si trova solo una scarna scheda biografica.
Basandomi sugli scarsi elementi storici e su alcuni episodi riferitimi da Ugo Berga nel mio Il treno che va in Francia ho comunque voluto renderlo voce narrante di un capitolo, in questo anniversario ne riporto qui un estratto.

[]al contrari mi al dì d’l’armistizio a i’eru ancora an Croazia* . Quel giorno gettai la divisa ma non la bandiera del reggimento, che nascosi sotto gli abiti prima di avviarmi a piedi verso la mia Valsusa. So che fu un gesto sciocco, inutilmente pericoloso, anche perché a un certo punto del viaggio per ridurre i rischi la bandiera la abbandonai, ma per me portarla indietro attestava che non stavo tradendo né scappando, ma solo tornando a casa.
Nei primi giorni riuscii a percorrere qualche tratto in treno – quanto li avrei rimpianti dopo –, almeno fino a Fiume. A Rijeka, maledizione, Rijeka. In tutti quei mesi in Croazia almeno qualche parola, cui nom t’lavrij ‘mparaie**, no? Non riesco a spiegarmi come sia possibile che con tutto l’odio che ho per i fascisti non mi riesca di togliermi dalla testa quello che la loro scuola ci ha cacciato. Le cose più evidenti sì, le ho cancellate, ma la pulizia non è arrivata a fondo. Su Fiume, ad esempio, tutte le frottole sulla cosiddetta impresa di quel pagliaccio di D’Annunzio le ho estirpate, ma il nome è rimasto. Eppure l’ho vista anche vicino a casa, questa vergogna dei nomi cambiati. Venalzio per Venaus, Ulzio per Oulx, Salabertano per Salbertrand, e tutti gli altri storpiati in modo meno orrendo ma ugualmente irritante. Ora che non vi sono più costretto non direi mai Venalzio, eppure se non ci sto attento continuo a dire Fiume per Rijeka, pur sapendo che è la stessa cosa.
Dicevo del ritorno, che fino a Rijeka era stato abbastanza rapido ma poi divenne sempre più lento. Prima dovetti rinunciare ai treni, e dopo i pochi giorni che i tedeschi impiegarono per riorganizzarsi, anche chiedere un passaggio poteva essere pericoloso, come addirittura camminare di giorno su determinate strade. Cercai di limitare il rischio, mi mossi solo più a piedi, evitai le strade principali e dormii nascosto come meglio potevo, in qualche stalla o magazzino quando andava bene, tra le frasche più spesso. Quando potevo avanzare su percorsi per cui difficilmente sarebbero passate pattuglie nemiche spesso, per non essere notato, camminavo di notte e riposavo di giorno, tanto per il mio senso dell’orientamento di montanaro il piatto della padana era scarso di informazioni sia con la luce che col buio. Sapevo di dover puntare a ovest, e quando più mi trovavo a brancolare senza riconoscere la direzione, o quando avevo di fronte un ostacolo, come uno dei fiumi che dovetti attraversare, era sempre ai binari che mi rivolgevo per trovare la giusta direzione. E quando finalmente, a ottobre già iniziato, passai la soglia della mia valle, segnata a nord dalla croce del Musinè e a sud dalla maestosità della Sacra, in quei luoghi in cui ogni panorama ritrovato mi dava piacere, nessuna vista, a parte quella di casa mia, me ne dette di più di quei tratti in cui i binari si vedevano allungarsi fin dove lo sguardo riusciva a seguirli, quasi ad accompagnarmi verso quella destinazione che sognavo.

* Al contrario io il giorno dell’armistizio ero ancora in Croazia.
** Qualche nome l’avrai imparato.

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