Il Gabrio non è un luogo

L’estate scorsa i compagni del CSOA Gabrio mi avevano chiesto di scrivere un breve testo sul mio incontro con il centro sociale. Il pezzo avrebbe dovuto far parte di un libretto pubblicato nell’autunno per i festeggiamenti dei 25 anni dell’occupazione. Il processo di lavorazione del libretto ha poi avuto una serie di intoppi, fino a disperdersi completamente nel lockdown, allo stato attuale è poco probabile che veda mai la luce, a me però il pezzo che avevo scritto piaceva, per cui, per evitare che vada completamente perso, lo pubblico qui.
Buon compleanno in ritardo al Gabrio, e buona lettura a voi.

La prima volta che ho incontrato il Gabrio non è stato al Gabrio. Era notte e faceva un gran freddo, nulla di strano a febbraio in una valle alpina, anche se ancora a bassa quota. Era la sera dopo la caduta di Luca Abbà dal traliccio in val Clarea, le notizie sulle sue condizioni erano ancora molto incerte ma quelle sul comportamento dell’allora LTF erano già schifosamente chiare: i lavori per l’allargamento di quello che non era ancora nemmeno un cantiere non erano stati fermati neanche per il tempo necessario a prestare a Luca i primi soccorsi, i mezzi avevano continuato a lavorare a pochi metri dal corpo inanimato a terra, come si è poi visto in tanti video.
Lo schifo, il momento storico e l’amplificazione della rete e di Radio Blackout avevano portato ad una mobilitazione rapidissima, e salendo in valle dopo il lavoro avevo trovato l’autostrada già occupata da una folla decisamente numerosa, folla che però mano a mano che la notte avanzava si era sempre più ridotta, tanto che intorno alle due del mattino eravamo rimasti forse in venti o trenta persone. Se ricordo bene sull’autostrada erano accesi due falò, e forse un altro sullo svincolo che portava a Bussoleno, la maggior parte degli occupanti si scaldava intorno a questi, io e pochi altri provavamo a mantenere la temperatura corporea camminando avanti e indietro. Ad un certo punto però la fatica ha iniziato a farsi sentire e mi sono avvicinato al fuoco che si trovava sulla sinistra guardando la barricata sulla carreggiata in salita ed è stato lì, mentre il calore delle fiamme cui mi ero avvicinato troppo faceva fondere un pezzo della suola di una delle mie scarpe, che ho incontrato per la prima volta il Gabrio. Non che prima di allora non conoscessi nessuno del centro, in sei anni di manifestazioni Notav di persone se ne incontrano parecchie, e a farmi scegliere quel falò piuttosto che un’altro era stata proprio la presenza dell’unica faccia nota in circolazione, e neppure voglio dire che attorno a quel fuoco ci fossero tutti quelli che lo componevano, però anche senza saperlo spiegare posso dire con certezza che lì non c’erano solo delle persone che facevano parte del centro, c’era il Gabrio, ed era la prima volta che lo incontravo in quanto tale.
“Perchè il Gabrio non è luogo, sono le persone che lo popolano”, questa era la frase che avevo in testa iniziando a scrivere questo pezzo, a cui volevo arrivare con questo preambolo, e a corroborare questa tesi ero pronto a portare l’evidenza del fatto che da allora il Gabrio ha anche cambiato casa, abbandonando le vecchie pareti che oggi non ci sono più per incontrarne di nuove, senza che questo cambiasse il suo essere, però non sono più convinto che sia così. Ora penso che il Gabrio sia tanto un luogo quanto le persone che lo popolano, e che anche se è sopravvissuto ad un trasloco non è vero che questo non l’abbia cambiato, anche se in modo meno evidente di quanto dopo il trasloco stesso siano cambiate la vecchia e la nuova casa.
Dopo quella notte ci sono stati molti altri incontri. Prima di nuovo con le sole persone, nelle manifestazioni per il diritto alla casa (e che soddisfazione quando alla fine di quella biciclettata siamo andati a salutare la nuova occupazione di via Frejus, liberata mentre la polizia era impegnata a seguirci per le strade del quartiere), al 25 aprile, dentro e sul tetto della ex Diatto (di nuovo di notte e di nuovo d’inverno, ma ce le andiamo a cercare?), e poi anche col luogo, quello nuovo, nella palestra, nello Spa, alle cene, alle presentazioni dei libri, che al Gabrio sono sempre molto più vive che in una libreria, con tante domande davvero di rado banali, anche a costo di sfinire l’autore, come era successo con Wolf Bukowski per “La santa crociata del porco”. E se ripensare agli incontri ‘fuori sede’ per un po’ mi ha rinforzato l’errata convinzione di cui ho scritto sopra, quelli dentro alla ex scuola Pezzani mi hanno invece fatto capire dove sbagliassi.
Nella nuova sede sono diversi gli spazi, e con gli spazi in più che ci sono ora si possono fare più cose, e se non ci fossero i nuovi gruppi che si sono formati forse nemmeno si sarebbe arrivati a ragionare di federazione di autonomie, e sono diverse le persone, perché qualcuno ci si è avvicinato per il fatto di trovarsi il centro sottocasa, o perché gli interessava una delle nuova attività, che senza i nuovi spazi non ci sarebbero state, altri come noi che non ce l’abbiamo più a portata di voce magari riescono a venirci un po’ meno. Le persone per forza di cose arrivano, vanno, ritornano, ripartono, ma questo movimento se cambia il Gabrio non lo snatura, come non lo ha snaturato il trasloco. E’ ovvio che il Gabrio non sia solo un luogo, ma non è nemmeno solo il gruppo che anima quel luogo, è un’entità che nasce dalle due cose, che si modificano a vicenda, ma ha una vita propria, che dipende da quella del luogo come da quella dei suoi ‘abitanti’ ma non coincide con nessuna di esse.
Io sono lento e ci arrivo tardi, ma probabilmente è per questo che del Gabrio diciamo che stiamo festeggiando non il 25° anniversario, ma il 25° compleanno.