Lieto fine

Avvertenza: questo post contiene spoiler su quasi tutti i romanzi citati

Qualche giorno fa ho finito di leggere Le correzioni di Jonathan Franzen (per chi fosse interessato ne ho scritto una breve recensione). Il romanzo mi è piaciuto molto, ma sono rimasto negativamente colpito dal finale (un capitoletto di 10 pagine su 600 del libro), che per introdurre un (moderatamente) lieto fine in una storia disastrosa rischia di rinnegare il quadro potentissimo che ne risultava. Ovviamente è possibile che il finale sia stato richiesto dall’editore (prima di questo romanzo Franzen non era ancora così famoso, e anche Ridley Scott fu forzato ad appiccicare un insulso lieto fine in fondo a Blade Runner), ma avendo letto anche Libertà, che in modo meno eclatante soffre dello stesso problema, tenderei a pensare che questo tipo di scelta sia nelle corde dell’autore.
Essendomi cimentato con la scrittura di romanzi ho sperimentato anch’io la tentazione del forzare un lieto fine, il desiderio di fornire almeno un appiglio di speranza al termine di una narrazione che ne spazzava via molta. Quale poi sia il limite in cui addolcire la pillola abbia o meno senso è questione difficile da dirimere, ma io la aggredirei più a monte chiedendomi se davvero quando raccontiamo una storia (o almeno una storia lunga, lasciando fuori i racconti nei quali mi sembra che il problema sia meno sentito) è necessario che questa abbia una chiusa che apre alla speranza.
L’isola dell’angelo caduto, uno dei più bei libri che abbia letto negli ultimi anni, si tiene ben lontano da questa tentazione, e da questa scelta esce molto irrobustito, ad esempio in confronto a Lupo mannaro, altro bel noir dello stesso Lucarelli, a mio avviso però depotenziato dall’inserimento da un finale che, seppure non lieto, riapre alla speranza espulsa nelle pagine precedenti. Con questo non voglio dire che nessun romanzo debba avere un lieto fine, in un altro noir come Questa non è una canzone d’amore questo è uno sbocco talmente naturale che sembrerebbe una forzatura proporne uno diverso, mi piacerebbe invece capire cosa faccia provare allo scrittore (ripeto, me compreso) l’urgenza di proporre una soluzione simile anche quando totalmente forzata, se sia una necessità psicologica innata nell’essere umano oppure se derivi dal un atteggiamento dispregiativo verso le critiche che non contengano una proposizione alternativa. Perchè credo che per i romanzi vale lo stesso criterio che per ogni altra affermazione, ovvero che dove è possibile è bene proporre soluzioni alternative, ma dove non se ne hanno sia già importante evidenziare i problemi senza edulcorali.